L'ESPRESSO

DAL SITO INTERNET

http://espresso.repubblica.it/

2008-30-10

LA SCUOLA

Così la scuola diventa un affare privato

di Piergiorgio Odifreddi

Il governo ha scelto la strada dei tagli. Con il risultato di aggravare i problemi dell'istruzione e di penalizzare solo il settore pubblico

Piergiorgio Odifreddi

Gli scioperi e le occupazioni che in questi giorni scuotono le scuole e le università italiane sono la reazione all'ormai famigerata legge 133 del 6 agosto 2008, che in realtà non è affatto una riforma dell'istruzione: piuttosto, contiene "disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria". Si tratta, cioè, di una legge di riordinamento economico che ha lo scopo principale di tagliare i costi e le spese dovunque, e affonda dunque la sua lama in tutti i tipi di servizi sociali.

Gli articoli che interessano l'istruzione e la ricerca sono pochi: sostanzialmente, il 15 sul costo dei libri scolastici, il 16 sulla facoltà di trasformazione in fondazioni delle università, il 17 sui progetti di ricerca di eccellenza, e il 64 sulle disposizioni in materia di organizzazione scolastica. E lo scopo, dichiarato espressamente nel comma 6 di quest'ultimo articolo, è di ottenere risparmi che vanno dal mezzo miliardo di euro per il 2009 ai 3 miliardi per il 2012.

Ora, poiché la scuola è uno dei servizi fondamentali che giustificano l'esistenza stessa dello Stato, insieme alla sanità, ai trasporti e alle comunicazioni, e i servizi per loro natura richiedono costi economici per poter offrire benefici sociali, è chiaro che mettere mano agli innegabili e gravissimi problemi che affliggono la scuola, badando soltanto e unicamente a risparmiare dal lato economico, significa fraintenderne le cause e rischiare di aggravarli invece di risolverli.

E invece è ormai evidente che la strategia del governo in questo campo si riduce a una e una sola azione: il taglio radicale dei finanziamenti alle scuole pubbliche di ogni ordine e grado, dalle elementari alle università, e il loro drastico ridimensionamento in termini di numero di classi, ore di lezione, indirizzi, sperimentazioni, piani di studio, insegnanti e personale non docente. Vanno in questa direzione, ad esempio, la reintroduzione del maestro unico (e trino, visto che il maestro generalista sarà affiancato dai due maestri di inglese e di religione), e il rapporto di uno a cinque fra le entrate e le uscite, cioè fra le assunzioni e i pensionamenti, dei docenti universitari.

Di fronte allo strangolamento economico della scuola e dell'università mi sono tornate in mente le parole che Piero Calamandrei pronunciò di fronte al Terzo Congresso dell'Adsn (Associazione a difesa della scuola nazionale) a Roma, l'11 febbraio 1950: data non casuale, essendo l'anniversario della firma dei Patti Lateranensi e dei benefici che lo Stato accordava, e continua ad accordare nonostante la congiuntura economica, alla Chiesa in generale e alle scuole cattoliche in particolare.

Rileggiamo dunque le sue parole, così antiche eppur così moderne: "Facciamo l'ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuole fare la marcia su Roma e trasformare l'aula in alloggiamento per i manipoli, ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura. Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di Stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di Stato hanno il difetto di essere imparziali. C'è una certa resistenza: in quelle scuole c'è sempre, perfino sotto il fascismo c'è stata. Allora il partito dominante segue un'altra strada: comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, a impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole

Una manifestazione studentesca

davanti al ministero della Pubblica Istruzione

private. E allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare in queste scuole, perché in fondo sono migliori, si dice, di quelle di Stato. E magari si danno dei premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli, invece che alle scuole pubbliche, alle scuole private. Così la scuola privata diventa una scuola privilegiata.

Attenzione, questa è la ricetta. Bisogna tener d'occhio i cuochi di questa bassa cucina. L'operazione si fa in questo modo: rovinare le scuole di Stato, lasciare che vadano in malora, impoverire i loro bilanci, ignorare i loro bisogni, attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private, non controllarne la serietà, lasciare che vi insegnino insegnanti che non hanno i titoli minimi per insegnare, e dare alle scuole private denaro pubblico". C'è bisogno di aggiunger altro?

(30 ottobre 2008)

Siamo fermi a Fermi

di Roberta Carlini

Il dipartimento di Fisica della Sapienza è stato una scuola di Nobel. Oggi tanti studenti emigrano per fare ricerca

Lo vede questo? È fermo da un anno, un guasto tecnico. Servono 40 mila euro per ripararlo, e non ce li abbiamo... Dipartimento di Fisica dell'università La Sapienza di Roma, cuore pulsante della protesta di studenti, post-studenti, dottorandi, ricercatori, docenti. Mario Capizzi, professore di fisica dei semiconduttori, mostra desolato l'apparecchio che giace in un angolo del laboratorio di Ottica. È un criostato a campo magnetico, serve per misurare alcune proprietà fisiche delle nanostrutture. Niente di eccezionale, ma una macchina basilare. "Ci hanno fatto una quantità di lavori, tutti pubblicati su riviste internazionali. Ora è fermo. Non è che lo vogliamo nuovo, ci basterebbe poterlo aggiustare". Invece non possono. La manutenzione costa, non tantissimo ma comunque troppo, per gli scarsi fondi che l'università ha per la sua ricerca.

Anche qui, nel tempio della fisica italiana, dove qualche giorno fa si è celebrato il centenario della nascita di Edoardo Amaldi, l'uomo che la fisica italiana l'ha ricostruita nel dopoguerra, dopo l'esodo tragico dei ragazzi di via Panisperna. La celebrazione è avvenuta nella stessa aula nella quale fino a qualche ora prima gli educatissimi occupanti avevano dormito: hanno ripulito tutto per far entrare gli invitati. E far capire perché, proprio qui, hanno deciso di dire basta.

Accanto al malmesso criostato, arriva Antonio Polimeni, ricercatore. "Anni fa ci è successa una cosa analoga nel laboratorio inglese dove facevo il post-dottorato. Si è rotto un laser, un problema per i progetti di ricerca. Una letterina del capo della struttura, e dopo un po' è arrivata la macchina nuova". I confronti internazionali sono impietosi e umilianti, per chi qui è tornato per scelta e anche per orgoglio. Certo non per soldi. "Con la mia borsa post-doc, nel Regno Unito guadagnavo il doppio di quanto prendo qui da ricercatore". 1.050 euro al mese lo stipendio di partenza, per i tre anni 'di prova', poi si sale fino a 1.300-1.400.

 

Ma fosse solo lo stipendio, il problema. "Quest'anno siamo invitati in Giappone e a Vilnius per presentare le nostre ricerche, ma stiamo valutando se andare, o risparmiarci i soldi del viaggio, 2-3 mila euro, potrebbero tornare utili qui, e pazienza per la mancata presentazione mondiale". Il fatto è che, dal 2000 a oggi, "abbiamo avuto il 35 per cento di soldi in meno", annuncia secco secco il capo del Dipartimento di Fisica, Giancarlo Ruocco. Il che vuol dire: visto che gli stipendi si devono pagare e le bollette pure, tiriamo la cinghia sulla manutenzione.

Tolleriamo le mura scrostate, cerchiamo di non far rompere niente. Ma quando qualcosa si rompe, sono dolori per chi fa ricerca sperimentale.

Meno afflitti dai problemi dei laboratori, i fisici teorici hanno però tutti gli altri. A partire da quello numero uno: come, quando e dove si comincia a fare ricerca. "Io ho cominciato qui a Roma con il dottorato, dopo la laurea a Pavia, poi ho fatto il post-dottorato a Oxford e a Parigi, due anni più due". Irene Giardina, che per mestiere studia la Meccanica statistica dei sistemi disordinati, credeva di aver risolto gran parte dei suoi problemi quando l'hanno fatta tornare a Roma nell'ambito del programma 'rientro dei cervelli': un contratto a termine, ma di alto livello. O almeno così pensava.

Poi però ha scoperto che quel contratto la lasciava nel vuoto al momento della maternità: forse ritenevano che il cervello tornasse senza corpo al seguito. Dunque, ha tentato un'altra strada: concorso (vinto) per un altro contratto all'Istituto nazionale di Fisica della Materia, che poi però è stato accorpato al Cnr complicando non poco tutta la procedura. Al termine della quale, è stata valutata e assunta. Non così il suo compagno di stanza Andrea Cavagna, che dopo identica lunga storia di concorsi vinti, università internazionali e pubblicazioni a go-go, è 'entrato' usufruendo della legge per la stabilizzazione dei precari: "Cosa che mi rende abbastanza triste".

"La cosa che ci fa più soffrire è la mancanza di valutazione del merito di quel che facciamo", rincara la dose Andrea Gabrielli. Anche lui è tornato in Italia rimettendoci mezzo stipendio, come gli altri suoi colleghi. Ma questa, pur essendo una nota dolente, non è la questione peggiore: "Il peggio è che, se per esempio abbiamo un progetto di ricerca finanziato, sul quale possiamo chiamare anche gente dall'estero, qui non viene nessuno perché non possiamo pagarli più del nostro livello", dice Cavagna, "e questo per motivi burocratici, persino se abbiamo i fondi".

Ecco perché qui da noi non viene nessuno. Ecco perché molti se ne vanno. "L'anno scorso al Cnr francese, su sette giovani ricercatori in fisica assunti, ben quattro erano italiani", racconta Francesco Sylos Labini, che precisa: "Ah, lì per 'giovani' intendono sotto i 30". Anche Francesco è tornato dopo otto anni e adesso è ricercatore a contratto, provvisorio, presso il Centro Fermi. Centro prestigioso, che dovrebbe tornare nella storica palazzina di via Panisperna: per ora è occupata da uffici del Viminale. Servizi segreti, dicono.

Tra i dipendenti diretti e quelli di enti collegati, sono circa 170 i ricercatori che fanno capo al Dipartimento di Fisica. Poi ci sono tutti quelli che non sono ancora dentro, e forse non lo saranno mai, ma che di fatto fanno ricerca a Fisica: una quarantina di borsisti, 90 dottorandi. E tutti i giovanissimi che aspirano alla carriera più difficile del momento. "Adesso abbiamo circa 280 immatricolati all'anno, e quasi tutti alle prime interviste dicono che vogliono diventare ricercatori", spiega Giancarlo Ruocco.

Di quei 280, mediamente arriva alla laurea più della metà, e moltissimi di loro hanno le potenzialità per restare a far ricerca. Arrivano al dottorato, anche al post-dottorato, ma poi "trovano un collo di bottiglia". In quel taglio del 35 per cento, necessariamente finiscono anche le spese per assegni di ricerca e borse. Ma non è solo quello il problema. Di tutte le materie, Fisica è stata quella più avara nel ricambio universitario: a livello nazionale solo il 2 per cento dei nuovi concorsi, dal '99 al 2007. Il 98 per cento è stato per promozioni: da ricercatore ad associato, da associato a ordinario. Roma non ha fatto eccezione alla triste regola: "Negli ultimi dieci anni ne sono entrati al massimo una decina", ammette Ruocco. Colpa di chi? "Dobbiamo fare un'autocritica: da quando si è passati dal concorso nazionale a quello locale, le promozioni interne sono state preferite alle assunzioni dei giovani, e anche i passaggi da un'università all'altra sono stati rarissimi".

Un meccanismo letale, soprattutto perché associato ai tagli dei finanziamenti dei progetti nazionali: "Così, ci stiamo giocando una generazione di studenti".

E la prossima, quella che è appena entrata? È poco più in là, sparsa nelle aule dell'università 'occupata ma aperta'. Dove con ordinatissimi grafici e tabelle, i più giovani organizzano tempi e luoghi della protesta: una giornata dell'accoglienza per i bambini delle elementari (pronto per tutti l'adesivo da mettere sulle magliette, prima di iniziare l'esplorazione tra le meraviglie della scienza ), cortei in bici e a piedi, recuperi in piazza delle lezioni saltate nelle aule, seminari a tema sul famigerato 133.

Il decreto che fa piovere sul bagnato, che taglia altri soldi e chiude altre porte. Perché il problema è Tremonti-Gelmini, ma anche tutto quello che c'è stato, e non c'è stato, prima di loro. Tutto quello che, per dirla con Luciano Pietronero, fisico della materia, rientrato dopo una brillante carriera internazionale, ha negato "serietà e competenza, che nella politica universitaria sono più importanti dei finanziamenti". Più che i tagli, dice Pietronero, "mi umilia il senso di disprezzo" verso la ricerca; il fatto che "la scienza venga vista come un hobby dei professori, un lusso, un gioiello. Ed è chiaro che, se la consideri un sovrappiù, è la prima cosa che tagli al momento del bisogno"

(30 ottobre 2008)